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L'azzurro ti dona: il colore come fatto sociale e linguistico

Diciamo innanzitutto che anche i non vedenti primari hanno a che fare con i colori fin dall'infanzia. L'integrazione scolastica mette a contatto il bambino non vedente, già dalla scuola materna, con compagni normovedenti che amano e usano i colori per disegnare, per descrivere il mondo e se stessi, per effettuare paragoni poetici e ludici. Il mondo dei bambini è molto colorato. Affinché il colore non rappresenti l'ennesima barriera mentale e linguistica che si frappone alla comunicazione con i compagni vedenti, il bambino cieco dalla nascita deve presto acquisire familiarità con questo illustre sconosciuto. Crescendo, verrà a contatto con i colori leggendo testi letterari, imparando a scegliersi i vestiti, utilizzando espressioni metaforiche come "sono rosso di vergogna" o "verde di rabbia".

Presso i centri tiflotecnici sono disponibili apparecchi chiamati colour test: sono dotati di una piccola telecamera e di una voce sintetica. Una volta appoggiati ad un tessuto o ad altre superfici colorate, questi strumenti ne vocalizzano il colore. In tal modo è possibile, ad esempio, conoscere la tinta della maglietta che si intende indossare al mattino. Questi apparecchi, in realtà molto utili nella vita pratica, non entrano però nel merito – né pretendono di farlo – del rapporto del non vedente primario con il colore. Riconoscere in modo meccanicistico le tinte di una stoffa, sapere che il sole è rosso al tramonto, sciorinare tutto lo spettro dei colori primari e secondari, rischia di essere un esercizio estrinseco, un'ulteriore incombenza che il non vedente deve sobbarcarsi per adattarsi ad una realtà che presenta molte opacità e zone ignote. Infatti, mentre al vedente il mondo viene incontro, le cose note lo rassicurano, quelle ignote lo incuriosiscono, per il non vedente vi è un limite di oscura e confusa indeterminatezza prima di entrare in rapporto con le cose, anche le più familiari.

Il colore, invece, deve e può essere a poco a poco interiorizzato anche dai non vedenti, entrando a far parte del loro vissuto. Già l'analisi della carta di identità rivela dei dati cromatici, dal colore degli occhi a quello dei capelli, che servono a qualificare la persona caratterizzandola rispetto ad altre. Tenendo conto di questi dati, è necessario imparare a scegliere i vestiti e gli altri accessori che più si intonano alle caratteristiche fisiche. La ricorrenza statistica dei giudizi formulati dai vedenti può essere un utile indicatore a tal proposito: si configura, infatti, come un elemento che concorre all'apprendimento per imitazione. Mi sono spesso sentita dire: «l'azzurro ti dona» e ho avvertito la necessità di conferire un significato psicologico, prima che descrittivo, a questa affermazione. La nostra identità, è vero, si struttura anche a partire dal riconoscimento altrui e dalle mode, ma rappresenta, anche nei suoi tratti esteriori, una forma di vissuto totalmente personale. Ecco perché l'azzurro per me non rimane un elemento astratto, ma, nell'indossarlo, penso di emanare un senso di benessere e di armonia, cosa che non mi accade, ad esempio, con il giallo.

Si potrebbe dire che questo modo di parlare dei colori senza averne fatto esperienza, rappresenti un utilizzo indebito del linguaggio. Le parole, però, non hanno solo una funzione comunicativa e descrittiva della realtà: permettono, ad esempio, di evitare di compiere ogni volta esperienza diretta degli oggetti, come quando si parla di eventi accaduti nel passato, quindi non più esperibili, o talmente lontani dalla nostra collocazione geografica da non poter essere conosciuti in diretta. Molti parlano dell'America senza esserci mai stati o del cavaliere medievale senza averne mai incontrato uno. Il linguaggio parla anche di ciò che non potremo mai verificare e che pure la scienza ammette come ipotesi, ad esempio del big bang cosmico. Secondo il filosofo Wittgenstein, un cieco può tranquillamente parlare di ciò che non vede, senza essere considerato un illuso, un superstizioso o un sognatore. Scrive infatti Wittgenstein: «Un cieco può dire che è cieco e che le persone intorno a lui vedono. "Sì, ma allora con le parole "cieco" e "vedente" non intende qualcosa di diverso da quello che intende chi vede?" Su che cosa si basa il fatto che si voglia dire una cosa del genere? Ebbene, se uno non sapesse che aspetto ha un leopardo potrebbe tuttavia dire e capire "Questo posto è molto pericoloso, qui ci sono leopardi".» (pp. 129-130). Il linguaggio, dunque, permette a tutti noi, ciechi e vedenti, di conoscere ciò che non possiamo “toccare con mano”, diventa un surrogato eccezionale e sorprendente dell'esperienza diretta, senza che si configuri come astratto e privo di senso. Il canale visivo rimane prioritario per la percezione del colore, ma quest'ultimo, oltre a non essere esiliato dal mondo dei non vedenti, può anche acquistare una valenza inedita quando i ciechi ne parlano, senza per questo perdere le connotazioni di fondo usate comunemente dai vedenti per definirlo.

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